Alla ricerca del DJEBEL QAF

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Un rumore sordo e intenso ci risvegliò dal nostro torpore all’interno di quella che era una miniera di ferro abbandonata fin dall’alba dei secoli e dove ormai vivevamo rintanati da oltre 10 anni. Le provviste si erano ormai assottigliate e le poche scatolette di cibo tendevano ormai ad arrugginirsi. Ma più che per la scarsità di cibo fu la curiosità del nostro piccolo nucleo di umanità rintanata che aveva ormai il desiderio di poter vedere cosa era successo “fuori”, da quando eravamo frettolosamente fuggiti e trovato riparo. Infatti quando ci tirammo alle spalle la pesante porta in calcestruzzo e pietre il luogo limitrofo e probabilmente il pianeta Terra era profondamente cambiato. Mutamenti climatici, riscaldamento terrestre con conseguente scioglimento dei ghiacci e mancanza di acqua anche a causa di un suo abnorme consumo per l’estrazione di minerali preziosi nelle nostre montagne e sul pianeta, associato ad un accumulo incredibile di rifiuti e soprattutto della plastica che aveva invaso ogni angolo possibile, avevano modificato anche la nostra possibilità di sopravvivere. Quando con fatica riuscimmo ad aprire i pesanti portoni trovammo una realtà diversa e modificata. La flora era scomparsa, scarsa anche la presenza animale, almeno da quanto avevamo potuto vedere in una rapida occhiata, ovviamente i vari segnali cellulari e satellitari erano scomparsi e il terreno e il cielo si confondevano in un giallognolo sinistro colore, presagio di essere rimasti in pochi su questo pianeta. Io con altri 4 compagni di ventura avevamo un sogno, quello di poter vedere per l’ultima volta la neve scintillante, un ghiacciaio, un verde tappeto erboso e capire soprattutto se tutto questo era ancora possibile e non si relegasse a sogno. Decidemmo quindi di raccogliere le poche cose rimaste e partire verso l’ignoto. La prima tappa fu un piccolo Museo Alpino semidistrutto: al suo interno trovammo dei vecchi ramponi a dieci punte, piccozze, corde pesanti in canapa, alcuni scarponi chiodati dalle misure “aleatorie” e un potente binocolo. Raccogliemmo le immagini di montagne in bianco e nero sparse sul pavimento e le sistemammo con attenzione all’interno di contenitori dove si sarebbero potute conservare. Recuperammo anche una vecchia bussola e alcune carte geografiche che forse ci avrebbero guidato. Iniziammo quindi il nostro viaggio a piedi frammentato alla possibilità di usufruire di auto abbandonate ancora in grado di fare qualche chilometro su strade fatiscenti. Ma la domanda era semplice e allo stesso tempo complessa? Dove andare e in che direzione?. Il giorno aveva incontrato la notte e il cielo era sempre color grigio arancio in un perenne crepuscolo di sabbia e vento, dove anche il concetto di tempo era svanito. Puntualmente ogni 30 chilometri (che calcolavamo a turno con i passi) si abbatteva una violenta tempesta di sabbia e rifiuti ed eravamo costretti a ripararci in qualche anfratto naturale o artificiale. Fu proprio in un tubo di una vecchia fognatura che incontrammo un’anziana donna dai modi eleganti e raffinati. Si capiva dai tratti somatici che proveniva da un’altra regione, infatti ci raccontò di essere giunta in questi luoghi da giovane dopo aver lasciato il continente detto “Senza Freddo”. Unimmo il nostro poco cibo con il suo e sedendoci intorno al lume di candela mangiammo e parlammo. Raccontammo della nostro idea, del nostro sogno, alla piacevole conversatrice e con sicurezza e senza esitazione ci disse di andare verso sud poi a ovest e lì avremmo incontrato la nostra montagna il DJEBEL QAF. Ci salutammo riprendemmo la nostra marcia incerti e dubbiosi sulle indicazioni di questa donna, ma ormai il mondo era così sottosopra che seguimmo il suo consiglio sperando di trovare la pianura, il mare. In realtà ai nostri occhi si presentò tutta un’altra visione: quella che era la pianura Eridana e il Mare Nostrum si erano ridotti ad un’immensa palude. Per una beffa prima erano stati sommersi dalle acque di un terribile tzunami e con un’onda incredibile di ritorno aveva come svuotato il mare e fatto crollare le colonne d’Ercole chiudendo di fatto lo sbocco sull’Atlantis. Il canale artificale che solcava la regione era da tempo scomparso inghiottito dalle tempeste quotidiane. Dopo aver seguito quella che era la “spina dorsale” del paese, cercando come sempre di evitare i piccoli insediamenti umani per timore di essere aggrediti. Scendiamo nella palude di quello che era il mare e con infiniti saliscendi raggiungemmo faticosamente un lembo di terraferma, un passo lento e costante sempre intervallato dalle soste forzate. In questa prima parte di cammino abbiamo potuto vedere dei piccoli insediamenti umani organizzati come tribù autonome sempre alla ricerca di sopraffare gli altri, senza legge e con molte, troppe armi ancora funzionanti. Infatti l’unica cosa rimasta erano proprio le armi e relative munizioni in una quantità abnorme e che purtroppo venivano frequentemente e superficialmente usate per un nonnulla. In questi frangenti l’essere umano diventa il peggiore degli animali e noi ci siamo sempre tenuti a distanza da questi insediamenti e guardavamo la “vita degli altri” attraverso il potente binocolo. Ci spostammo verso Ovest per proseguire il cammino e raggiungere forse la nostra montagna. Le tempeste di sabbia, plastica e rifiuti vari erano sempre più frequenti e ravvicinate ed il colore del cielo era ancora più grigio. Grazie alla vecchia bussola, alle carte e alle indicazioni dell’anziana signora arrivammo in un anfiteatro roccioso immerso nel silenzio e dove riuscimmo a riposare profondamente per la prima volta da quando eravamo partiti. Fummo svegliati dal suono di alcune campanelle e rivedemmo dopo molto tempo tre magrissime capre intente a cercare lo scarso e secco cibo.

Decidemmo di seguirle e ci condussero in una grande grotta (sembrava l’antro di Polifemo), dove su una montagna di coperte stava sdraiato il vecchio pastore con una folta barba grigio/gialla. Non fu sorpreso della nostra apparizione, in quanto una sua vecchia parente le aveva comunicato (?) che, prima o poi, degli stranieri sarebbero arrivati. Dopo molti anni riuscimmo a bere dell’ottimo latte e mangiare del buon formaggio e questo ci diede nuova energia e forza. Il pastore ci spiegò che quello che noi cercavamo esisteva ancora e ci spiegò come raggiungere la montagna lucente che sarebbe apparsa a noi solo dopo aver superato la fascia gialla del cielo. Non era una facile impresa: più ci si avvicinava più la furia del vento ci avrebbe staccato letteralmente dal suolo e la fatidica soglia tra sabbia e cielo era impossibile da superare. Ma saggiamente il vecchio pastore ci indicò dove trovare uno stretto e angusto cunicolo che ci avrebbe consentito di bypassare questa insormontabile invisibile linea. Seguimmo alla lettera le sue istruzioni, legandoci tutti e 5 sulla stessa corda per contrastare la furia del vento. Ci infilammo in questo “tunnel ascendente” e, meraviglia, uscimmo all’aperto in un luogo idilliaco. Il vento era cessato i prati erano verdeggianti coperti di licheni, rododendri piante di mirtilli, lamponi, more e l’acqua scorreva limpida. Il nostro “campo base” era veramente un sogno, finalmente era possibile farci un bagno rinfrescante e assaporare “l’odore” della montagna. Il giorno inseguiva la notte e viceversa ed il tempo era tornato a scorrere. La cima si stagliava lontana sopra di noi attraverso rocce e ghiacciai e finalmente il nostro sogno si stava per realizzare. Grazie all’attrezzatura “d’epoca” recuperata formammo due cordate e ci legammo con le pesanti corde di canapa ed iniziammo la salita. La morena, la lunga ascesa districandoci tra seracchi e crepacci con un tempo sempre splendido e invitante. Tre giorni erano trascorsi da quando lasciammo il verde campo base, eravamo ormai circondati da nevi perenni e cime minori quando l’ultimo scivolo di neve ci sbarrava ancora la strada verso la cima. Non conosciamo l’altezza del Monte e poi non ci importa neppure, l’importante era la realizzazione del sogno, e con questi pensieri, superato un ponte di neve ci ritrovammo abbracciati tutti e 5 sulla vetta del Djebel Qaf. Io, Iris e Eracle eravamo ormai troppo stanchi e acciaccati per ritornare alla “non terra”, mentre Tecla e Erito, i più giovani del gruppo, volevano giustamente realizzare  altri sogni. Lasciammo a loro tutta l’attrezzatura, ci salutammo per sempre e mentre noi ci apprestavamo e costruire la nostra ultima truna di neve, con il binocolo, l’unica cosa che ci eravamo tenuti, scrutavamo la loro discesa ed infine vedemmo le loro ombre al termine del plateau glaciale quando ormai la notte ci aveva raggiunto.

marino periotto

Categorie:alternativanomade

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